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Davide Uria: Sopravvivere all’arte contemporanea.

da | 15 Giu 2025 | Arte e Cultura

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Entrare in un museo d’arte contemporanea è sempre un rischio. Non tanto per paura di non capire, ma per il timore – forse più profondo – di dover rallentare. Di dover fermarsi. In un tempo in cui tutto corre, tutto si consuma, tutto scorre via veloce – immagini, notizie, emozioni – il museo impone un ritmo diverso, estraneo, quasi fastidioso: il tempo della sospensione, dell’attesa, dell’ascolto.

Con il suo nuovo libro, Sopravvivere a un museo d’arte contemporanea. Dieci stanze, dieci artisti, dieci sopravvivenze possibili, Davide Uria ci accompagna dentro questo spaesamento con ironia e intelligenza. Non offre risposte pronte, non dà ricette sicure. Propone invece un esercizio: quello dello sguardo che resiste, che resta anche quando il senso sfugge, anche quando l’opera sembra muta o provocatoria. Perché l’arte contemporanea non si lascia capire subito. Non consola, non rassicura. Chiede di essere abitata, attesa, vissuta.

Le dieci “stanze” di questo museo immaginario non sono semplici luoghi d’esposizione, ma tappe di un viaggio più profondo. C’è Jasper Johns, che dipinge una bandiera che non sventola e ci obbliga a guardare di nuovo ciò che credevamo familiare. C’è Claes Oldenburg, che trasforma un gelato in monumento e ci costringe a sorridere e a riflettere sul nostro mondo ingigantito. C’è Victor Vasarely, che con le sue illusioni ottiche fa vibrare lo sguardo fino a farci dubitare della realtà stessa.

E poi ci sono le parole urlanti di Barbara Kruger, i corpi vulnerabili di Marina Abramović, i pois infiniti di Yayoi Kusama, le macchine impazzite di Jean Tinguely. Ogni artista diventa qui un compagno scomodo, un ostacolo produttivo, una soglia da attraversare. Non si tratta di capire l’opera, ma di sopravvivere al proprio bisogno di capire subito.

Perché è questo il cuore del museo contemporaneo: la crisi della visibilità, la rottura dell’evidenza. Il visitatore non può limitarsi a guardare: deve fermarsi, interrogare, sopportare l’assenza di risposte. È un esercizio di resistenza interiore, di fatica percettiva. E in questo somiglia profondamente alla vita vera. Perché anche la realtà non si lascia afferrare subito. Anche le relazioni, le parole, le scelte chiedono tempo, attenzione, cura.

C’è, in questo libro di Davide Uria, una filosofia sottile che attraversa ogni pagina: l’arte come metafora dell’esistenza. Imparare a guardare un’opera d’arte significa imparare a guardare gli altri, il mondo, se stessi con uno sguardo più paziente, più profondo, meno frettoloso. È una lezione difficile, ma necessaria. In un’epoca che ci vuole veloci e distratti, il museo ci obbliga a essere lenti e presenti.

Ecco allora che sopravvivere a un museo d’arte contemporanea non è sopravvivere all’arte. È sopravvivere a noi stessi. Al nostro bisogno di controllo, di comprensione immediata, di senso facile. È imparare a restare, a tollerare il vuoto, a dare tempo al possibile.

Perché forse il vero valore – nell’arte come nella vita – non nasce dalla fretta, ma dalla cura. E ogni stanza di questo museo immaginario diventa un piccolo allenamento per lo sguardo e per l’anima. Un invito a non avere paura di non capire. A non scappare di fronte al difficile. A restare umani, anche nella complessità.

Con questo libro Davide Uria non si limita a raccontare l’arte contemporanea: ci invita a vivere meglio il nostro presente, con più attenzione, più silenzio, più profondità. Un libro necessario.


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